Taranto, la via francigena e le fonti storiche
"Nella maggior parte dei casi, i pellegrini e i crociati seguivano le preesistenti Strade consolari di epoca romana, o almeno quel che ne rimaneva, come la Via Appia, la Via Latina-Casilina e la Via Appia Traiana. A Brindisi vi era il santuario di San Leucio e, nella diramazione verso Taranto, percorrendo il prolungamento della Via Appia antica, vi era quello di Oria con i Santi Crisanto e Daria. Ne dà testimonianza l’ “Itinerarium Bernardi monachi Franci”, compiuto tra l’867 e l’870. Con due suoi “fratribus in devotione caritatis”, tali “Stephanus Ispanus” e Teodemondo del monastero beneventano di San Vincenzo, il monaco francese Bernardo si dipartì da Roma, dopo aver ricevuto la benedizione dal papa Nicola I. […]
Dalle tappe menzionate nell’ Itinerarium (la grotta dell’Arcangelo sul Gargano, Bari e Taranto) ne inferiamo che i tre monaci, dopo aver usato la via Appia o la Latina-Casilina ed essere giunti a Benevento, dovettero seguire la direttrice dell’Appia Traiana, distaccandosene soltanto per raggiungere il Santuario di San Michele, che è detto trovarsi sub uno lapide, super quem sunt quercus glandi. Da Bari, definita civica Sarracinorum (in quegli anni faceva infatti parte di un emirato arabo costituitosi tra Puglia e Lucania), i tre pellegrini raggiunsero Taranto, dove si imbarcarono, utilizzando l’antica via per compendium che raccordava l’Appia Traiana all’antico terminale della via Appia.
[…] Le nuove vie di pellegrinaggio (secc. XIV-XV) […]
Francesco Petrarca, nel suo immaginario itinerario in Terrasanta del 1358, seguendo la stessa rotta sino a Crotone e a Leuca, descrive il porto di Taranto nascosto in un profondo recesso del mare, ormai tagliato fuori, insieme agli altri porti pugliesi, dalle rotte e dagli itinerari dei pellegrini.
Nel Salento vi è la leggenda di San Pietro in Bevagna (Manduria) che è documentata, non a caso, da fonti altomedievali. Si narra che l’apostolo Pietro naufragò nella località tarantina durante una mareggiata di scirocco e che, una volta approdato, convertì dapprima un certo signore Fellone e, successivamente, intere comunità salentine come Oria e tante altre. Annessa all’omonima torre costiera vi è ancora oggi la chiesa di San Pietro.
Nei dintorni di Taranto esistono inoltre le cosiddette Sorgenti di Carlo Magno: si narra che quando il sovrano con il suo esercito attraversava la valle dell’Idro, assetato ed esasperato per l’aridità del luogo, abbia inferto con la sua spada un colpo contro la roccia e, come per incanto, le acque zampillarono.
Insomma, tenendo conto degli itinerari religiosi, dei fattori politici e geografici, del fermento creativo e culturale delle genti locali, nonché di quello economico, credo di aver fornito motivati suggerimenti sulla centralità che anche la Terra d’Otranto ricopriva nei traffici spirituali del medioevo.”
Un altro elemento importantissimo nello studio delle fonti, concerne il riconoscimento del 1113 di papa Pasquale II conferito ai sette punti ospedalieri per forestieri e relative strutture ricettive per i pellegrini secondo la Via Francigena.
Approfondisce l’argomento Pietro De Leo (p.98 op. cit.):
“Nella bolla del 1113 papa Pasquale II confermava a Gerardo sette xenodochia in Occidente, a Bari, Otranto, Taranto, Messina, Pisa, Asti in Italia e a Saint Gilles in linguadoca, che il testo papale specificava già in possesso degli ospedalieri.
… Sane xenodochia sive Ptochia in Occidentis partibus penes burgum S. Penes Burgum S. Egiddii, Astense, Pisam, Barum, Ydrontum, Tarentum, Messanam, Hierosolymitani nominis titulo celebrata, in tua et successorum tuorum subiectione ae disposicione, sicut hodie sunt, in perpetuum manere statuimus. ”
Dalle tappe menzionate nell’ Itinerarium (la grotta dell’Arcangelo sul Gargano, Bari e Taranto) ne inferiamo che i tre monaci, dopo aver usato la via Appia o la Latina-Casilina ed essere giunti a Benevento, dovettero seguire la direttrice dell’Appia Traiana, distaccandosene soltanto per raggiungere il Santuario di San Michele, che è detto trovarsi sub uno lapide, super quem sunt quercus glandi. Da Bari, definita civica Sarracinorum (in quegli anni faceva infatti parte di un emirato arabo costituitosi tra Puglia e Lucania), i tre pellegrini raggiunsero Taranto, dove si imbarcarono, utilizzando l’antica via per compendium che raccordava l’Appia Traiana all’antico terminale della via Appia.
[…] Le nuove vie di pellegrinaggio (secc. XIV-XV) […]
Francesco Petrarca, nel suo immaginario itinerario in Terrasanta del 1358, seguendo la stessa rotta sino a Crotone e a Leuca, descrive il porto di Taranto nascosto in un profondo recesso del mare, ormai tagliato fuori, insieme agli altri porti pugliesi, dalle rotte e dagli itinerari dei pellegrini.
Nel Salento vi è la leggenda di San Pietro in Bevagna (Manduria) che è documentata, non a caso, da fonti altomedievali. Si narra che l’apostolo Pietro naufragò nella località tarantina durante una mareggiata di scirocco e che, una volta approdato, convertì dapprima un certo signore Fellone e, successivamente, intere comunità salentine come Oria e tante altre. Annessa all’omonima torre costiera vi è ancora oggi la chiesa di San Pietro.
Nei dintorni di Taranto esistono inoltre le cosiddette Sorgenti di Carlo Magno: si narra che quando il sovrano con il suo esercito attraversava la valle dell’Idro, assetato ed esasperato per l’aridità del luogo, abbia inferto con la sua spada un colpo contro la roccia e, come per incanto, le acque zampillarono.
Insomma, tenendo conto degli itinerari religiosi, dei fattori politici e geografici, del fermento creativo e culturale delle genti locali, nonché di quello economico, credo di aver fornito motivati suggerimenti sulla centralità che anche la Terra d’Otranto ricopriva nei traffici spirituali del medioevo.”
Un altro elemento importantissimo nello studio delle fonti, concerne il riconoscimento del 1113 di papa Pasquale II conferito ai sette punti ospedalieri per forestieri e relative strutture ricettive per i pellegrini secondo la Via Francigena.
Approfondisce l’argomento Pietro De Leo (p.98 op. cit.):
“Nella bolla del 1113 papa Pasquale II confermava a Gerardo sette xenodochia in Occidente, a Bari, Otranto, Taranto, Messina, Pisa, Asti in Italia e a Saint Gilles in linguadoca, che il testo papale specificava già in possesso degli ospedalieri.
… Sane xenodochia sive Ptochia in Occidentis partibus penes burgum S. Penes Burgum S. Egiddii, Astense, Pisam, Barum, Ydrontum, Tarentum, Messanam, Hierosolymitani nominis titulo celebrata, in tua et successorum tuorum subiectione ae disposicione, sicut hodie sunt, in perpetuum manere statuimus. ”
Taranto negli studi del prof. Pietro Dalena
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Taranto negli studi di Cosimo Damiano Fonseca: civiltà rupestre in terra jonica
L’agiografia cataldiana, in termini di critica storica, pur con i numerosi studi contemporanei, è ancora in fase di definizione.
Incerte rimangono alcune tappe della vita di S.Cataldo e dei suoi luoghi di provenienza; addirittura, Alberto Carducci, lo studioso più accreditato sul Patrono tarantino, ipotizza un’origine longobarda che non sembra per niente trascurabile (CARDUCCI 1979 e 1997).
Intanto, da più parti, si dice che Cataldo non è mai stato vescovo di Taranto.
L’autorevole Biblioteca Sanctorum (1963), pur accettandone l’origine irlandese (fu abate nel monastero di Lismore), ha escluso il titolo di vescovo a favore del ruolo missionario del monaco pellegrino, morto a Taranto e ivi sepolto al ritorno da un suo viaggio in Terrasanta, dove si era recato << pro amore Dei et pro remedio animae suae>>.
La tradizione ionica, invece, lo vuole presule sulla base di un antico culto locale verso un vescovo tarantino di nome Gaidoaldus, da cui Cataldus,antroponimo di origine germanica dal significato “potente con la lancia”. Ciò supporterebbe la tesi del Carducci circa la presunta provenienza longobarda del Santo, ulteriormente confermata dalla crocetta aurea opistografa propria, nella fattura, delle mode longobarde e che, lungi dall’essere del tipo benedizionale, pur recando la scritta (apocrifa) CATALDUS, era un ornamento diffuso e apparteneva a un aureo spillone funerario, da cui forse venne staccata al momento della invenzione della tomba del Santo, per distinguerne le ossa (CARDUCCI 1979,65ss). Il tentativo dell’agiografo irlandese Giovanni Colgan, vissuto nel XVIII secolo, di assegnare al nome Cataldus un’origine celtica, non ha trovato riscontro né sul piano documentario né tanto meno su quello filologico. Al contrario, meglio attestato, non solo in Italia, ma anche a Betlemme, a Costantinopoli, a Malta e in Francia, è il culto per Cataldus, vescovo tarantino, festeggiato ovunque il 10 maggio, considerato suo dies natalis. Di questa rapidissima panoramica, va segnalato il caso di Betlemme (la pittura murale cataldiana di epoca crociata-databile tra il 1160 e il 1180- che orna la rotonda colonna della basilica della Natività), che deve il culto di S.Cataldo ai rapporti tra Taranto e Terra Santa e all’incremento devozionale favorito dai Normanni all’indomani della traslazione dei suoi resti (1151) a seguito di alcuni miracoli; e non è secondario notare che Ralph (Rodolfo), vescovo di Betlemme, era un normanno che, nel 1169, risulta fecondo committente di mosaici e pitture murali della basilica betlemita (KṺHNEL 1988,63; CARDUCCI 1992,195; JUHÀSZ 1950,315 ss.)
L’agiografia cataldiana tarantina, sino al XVIII secolo pesantemente intrisa di leggende-a partire dagli scritti incerti e inesatti del De Algeritiis e del Giovine, ai sei libri della Castaldiados dei fratelli Bonaventura e Bartolomeo Morone, per continuare sino al Cassinelli, al De Vincentiis e,infine, allo stesso Blandamura, che sollevò le manifeste incongruenze tra la tipologia della crocetta , tipica del VII-VIII secolo e la scrittura apocrifa, propria della tipologia dei caratteri dell’ XI-XII secolo - considera come dies natalis del Santo il dies inventionis et translationis.
Il primo è da inserirsi, secondo la tradizione ancorata agli eventi locali, tra gli anni 1071 e 1076, quando si lavorava all’erezione della nuova Cattedrale che andava sorgendo sui ruderi di quella più antica, dedicata a S.Maria (di essa fa riferimento Gregorio Magno nel 603 in una epistola indirizzata a Onorio, vescovo di Taranto; GREGORII I, Registrum Epistularum,24). Fu in quell’occasione che rinvenne la tomba di S.Cataldo : era vescovo di Taranto Drogone (1050-1091), uno di quei presuli presenti alla solenne consacrazione dell’abbazia di Montecassino effettuata il 10 ottobre 1071 da Alessandro II. Il dies translationis rimanda al 10 maggio del 1151 quando, sotto il governo pastorale di Gerardo I (1139-1172), seguì la traslazione delle reliquie di S.Cataldo nel vestibolo dell’attuale Cappellone; quella data è stata consegnata alla storia di Taranto come il giorno della festa di S.Cataldo e non pare azzardato fissare al 10 maggio del 1151 la data meglio storicizzata come inizio ufficiale del culto patronale di S.Cataldo a Taranto.
Comunque, la storiografia fin ora esistente sul Santo patrono non consente di tracciare una precisa fisionomia agiografica. Il tutto si muove in un’atmosfera “fabulosa”, tra storia e leggenda: una vexata quaestio, portata avanti dagli studiosi, che non preoccupa gli abitanti di Taranto, la cui devozione al loro Patrono taumaturgo è antica quanto proverbiale, se si considera che essi amano definirsi “cataldiani” invece che “tarantini”.
Fra numerosi fatti leggendari - o meglio, non storicizzati per via di documenti - due sono quelli più cari ai Tarantini, come testimoniano gli anziani pescatori della Città Vecchia in maniera vivace (per non dire passionale) e pittoresca. La prima leggenda riguarda il dono delle tre grazie che Iddio concesse al Santo per la sua Città prima di morire, cioè che Taranto sarebbe stata salvata da tempeste, colera e terremoti; la seconda narra che a Cataldo, prima di sbarcare a Taranto, nel mar piccolo, vicino al porto, cadde accidentalmente in acqua il suo anello pastorale: in quel punto, dicono i Tarantini, subito si aprì dal fondo, a forma d’anello, ‘na vena d’acqua doce (una sorgente d’acqua dolce) ben visibile da tutti per lo spiccato colore azzurro chiaro; quel piccolo pezzo di mare, da allora, è rimasto il più pescoso di tutta la zona.
Gli Acta Sanctorum riportano alcuni miracoli attribuiti a S. Cataldo. Il repertorio tematico è quello che lega il Santo al mare (AA. SS., Maii, t.II, coll. 570-572): S. Cataldo che salva alcuni marinai di Crotone in navigazione verso Taranto, sorpresi da una tempesta a largo, tra le foci del Bradano e del Lato; S. Cataldo che fa riottenere la vista ad una monaca di Gallipoli non appena la nave su cui viaggia la religiosa entra nel porto di Taranto; S. Cataldo che salva alcuni marinai di Taranto colti da tempesta al loro ritorno dalla Sicilia (DALENA 1997, 40).
Un pellegrinaggio a Taranto legato al culto di S. Cataldo, sia pure di modeste proporzioni, è attestata dall’arrivo in <<peregrino habitu>> di un pittore <<ex genere Francorum>> che affrescò la nuova chiesa del Santo e da un ospizio per pellegrini, avviato presso il monastero greco di S. Pietro in Magna Insula Tarenti nel 1118, per volontà e in seguito a donazione di Costanza, vedova di Boemondo I, documentato da una bolla di Clemente III del 1188 (IBIDEM; CARDINI 1995, 291).
In ambito iconografico, le più antiche raffigurazioni del Santo, sparse per l’Italia e l’Europa, lo mostrano con abiti arcivescovili, con la barba (raramente senza, come nell’affresco della Cattedrale di Anagni), col pastorale, col pallium, mentre legge un libro, in atteggiamento benedicente e col capo coperto dalla mitra (KAFTAL 1965, coll.253-254; RÈAU III 262).
Non mancano immagini, in versioni diverse, che vedono il santo recare nella mano destra l’immagine della Città di Taranto o comunque simboli marinari che ne connotano il patronato. Nella cripta della romanica cattedrale di Taranto (“la più antica di Puglia”), a lui intitolata, sulla parete destra della zona absidale campeggia un palinsesto di S. Cataldo (che affianca Maria Maddalena e S. Maria Egiziaca, del primo strato), datato tra XIII e XIV secolo, che costituisce forse l’immagine più suggestiva del Patrono Tarantino, espressione di una corrente pittorica di marca orientale. Altre pitture sono quelle realizzate tra Sei e Settecento da insigni artisti locali e della scuola napoletana. Segnaliamo solo le due tele datate del pronao della cattedrale di S. Cataldo: l’ingresso di S. Cataldo a Taranto (opera di Giovanni Caramia, 1675) e S. Cataldo resuscita un morto (opera di Michele Lenti da Gallipoli, 1773). Vi è poi la statuaria tarantina, la cui prima realizzazione fu il busto-reliquiario in argento del 1346, commissionato dall’arcivescovo di Taranto Ruggero Capitignano a un orafo locale (Calò Mariani 1993a, 729), poi fatto adattare a figura intera a Napoli nel 1465 dal sindaco Troilo Protontino, a ringraziamento del popolo tarantino scampato dal colera per intercessione di S. Cataldo; il sacro manufatto fu poi fuso al tempo di Mons. Jorio, nel 1892, per realizzarne uno nuovo.
Significative testimonianze delle vecchie statue ci pervengono dagli scritti che ci hanno lasciato alcuni viaggiatori tra Sette e Ottocento, come ad esempio quelle del Pacichelli, della Ross e del Bertaux.
L’abate Giovanni Battista Pacichelli (1641-1695), nella sua fortunata opera pubblicata nel 1703 (Il Regno Di Napoli In Prospettiva) così descrive l’antica statua del “Glorioso Protettore”: <<...d’argento, alta sette palmi, racchiude nella testa, che dicon finita per mano Angelica, il proprio cranio. Si venera la Lingua del medesimo incorrotto dopo mille anni…>>.
Alla viaggiatrice inglese, Janet Ross, dopo la visita al Cappellone di S. Cataldo, la statua <<si mostra in tutta la sua bruttezza, nonostante fosse in argento>> (Ross 1889,101).
Emile Bertaux, invece, dopo aver visitato la cattedrale tarantina, a proposito del venerato simulacro, così scrive nel suo testo intitolato Sur les chemins des pèlerins et des emigrants ( <<rassegna pugliese>>, gen. – febbr. 1898, pp. 345-55): <<domando di questa statua al tesoriere del Capitolo e mi sento dire con perfetto cortesia che la statua “antichissima” venne fusa tra anni orsono e che con l’argento di essa ne era stata fatta un’altra “molto più bella”… mi fa penetrare ( il sacerdote) nel ricchissimo Cappellone tutto intarsiato di marmi rari, in fondo al quale un armadio chiuso con porte d’argento massiccio contiene l’immagine di S.Cataldo. La statua moderna è di disegno corretto, d’esecuzione e di stile settecento>> a partire dal Seicento, è possibile trovare delle incisioni cataldiane che ripercorrono la vita del Santo, alcune delle quali finalmente acquerellate e arricchite di medaglioni, come quella della prima metà del seicento , inserita nel testo Missae solemmes, a firma di monzi. T. Caracciolo. Tra fine ottocento e i primi del novecento non mancano esemplari di cromolitografia ad uso di piccole immagini devozionali, che si offrivano nella Cattedrale a tutto il popolo nei giorni del triduo di maggio.
Incerte rimangono alcune tappe della vita di S.Cataldo e dei suoi luoghi di provenienza; addirittura, Alberto Carducci, lo studioso più accreditato sul Patrono tarantino, ipotizza un’origine longobarda che non sembra per niente trascurabile (CARDUCCI 1979 e 1997).
Intanto, da più parti, si dice che Cataldo non è mai stato vescovo di Taranto.
L’autorevole Biblioteca Sanctorum (1963), pur accettandone l’origine irlandese (fu abate nel monastero di Lismore), ha escluso il titolo di vescovo a favore del ruolo missionario del monaco pellegrino, morto a Taranto e ivi sepolto al ritorno da un suo viaggio in Terrasanta, dove si era recato << pro amore Dei et pro remedio animae suae>>.
La tradizione ionica, invece, lo vuole presule sulla base di un antico culto locale verso un vescovo tarantino di nome Gaidoaldus, da cui Cataldus,antroponimo di origine germanica dal significato “potente con la lancia”. Ciò supporterebbe la tesi del Carducci circa la presunta provenienza longobarda del Santo, ulteriormente confermata dalla crocetta aurea opistografa propria, nella fattura, delle mode longobarde e che, lungi dall’essere del tipo benedizionale, pur recando la scritta (apocrifa) CATALDUS, era un ornamento diffuso e apparteneva a un aureo spillone funerario, da cui forse venne staccata al momento della invenzione della tomba del Santo, per distinguerne le ossa (CARDUCCI 1979,65ss). Il tentativo dell’agiografo irlandese Giovanni Colgan, vissuto nel XVIII secolo, di assegnare al nome Cataldus un’origine celtica, non ha trovato riscontro né sul piano documentario né tanto meno su quello filologico. Al contrario, meglio attestato, non solo in Italia, ma anche a Betlemme, a Costantinopoli, a Malta e in Francia, è il culto per Cataldus, vescovo tarantino, festeggiato ovunque il 10 maggio, considerato suo dies natalis. Di questa rapidissima panoramica, va segnalato il caso di Betlemme (la pittura murale cataldiana di epoca crociata-databile tra il 1160 e il 1180- che orna la rotonda colonna della basilica della Natività), che deve il culto di S.Cataldo ai rapporti tra Taranto e Terra Santa e all’incremento devozionale favorito dai Normanni all’indomani della traslazione dei suoi resti (1151) a seguito di alcuni miracoli; e non è secondario notare che Ralph (Rodolfo), vescovo di Betlemme, era un normanno che, nel 1169, risulta fecondo committente di mosaici e pitture murali della basilica betlemita (KṺHNEL 1988,63; CARDUCCI 1992,195; JUHÀSZ 1950,315 ss.)
L’agiografia cataldiana tarantina, sino al XVIII secolo pesantemente intrisa di leggende-a partire dagli scritti incerti e inesatti del De Algeritiis e del Giovine, ai sei libri della Castaldiados dei fratelli Bonaventura e Bartolomeo Morone, per continuare sino al Cassinelli, al De Vincentiis e,infine, allo stesso Blandamura, che sollevò le manifeste incongruenze tra la tipologia della crocetta , tipica del VII-VIII secolo e la scrittura apocrifa, propria della tipologia dei caratteri dell’ XI-XII secolo - considera come dies natalis del Santo il dies inventionis et translationis.
Il primo è da inserirsi, secondo la tradizione ancorata agli eventi locali, tra gli anni 1071 e 1076, quando si lavorava all’erezione della nuova Cattedrale che andava sorgendo sui ruderi di quella più antica, dedicata a S.Maria (di essa fa riferimento Gregorio Magno nel 603 in una epistola indirizzata a Onorio, vescovo di Taranto; GREGORII I, Registrum Epistularum,24). Fu in quell’occasione che rinvenne la tomba di S.Cataldo : era vescovo di Taranto Drogone (1050-1091), uno di quei presuli presenti alla solenne consacrazione dell’abbazia di Montecassino effettuata il 10 ottobre 1071 da Alessandro II. Il dies translationis rimanda al 10 maggio del 1151 quando, sotto il governo pastorale di Gerardo I (1139-1172), seguì la traslazione delle reliquie di S.Cataldo nel vestibolo dell’attuale Cappellone; quella data è stata consegnata alla storia di Taranto come il giorno della festa di S.Cataldo e non pare azzardato fissare al 10 maggio del 1151 la data meglio storicizzata come inizio ufficiale del culto patronale di S.Cataldo a Taranto.
Comunque, la storiografia fin ora esistente sul Santo patrono non consente di tracciare una precisa fisionomia agiografica. Il tutto si muove in un’atmosfera “fabulosa”, tra storia e leggenda: una vexata quaestio, portata avanti dagli studiosi, che non preoccupa gli abitanti di Taranto, la cui devozione al loro Patrono taumaturgo è antica quanto proverbiale, se si considera che essi amano definirsi “cataldiani” invece che “tarantini”.
Fra numerosi fatti leggendari - o meglio, non storicizzati per via di documenti - due sono quelli più cari ai Tarantini, come testimoniano gli anziani pescatori della Città Vecchia in maniera vivace (per non dire passionale) e pittoresca. La prima leggenda riguarda il dono delle tre grazie che Iddio concesse al Santo per la sua Città prima di morire, cioè che Taranto sarebbe stata salvata da tempeste, colera e terremoti; la seconda narra che a Cataldo, prima di sbarcare a Taranto, nel mar piccolo, vicino al porto, cadde accidentalmente in acqua il suo anello pastorale: in quel punto, dicono i Tarantini, subito si aprì dal fondo, a forma d’anello, ‘na vena d’acqua doce (una sorgente d’acqua dolce) ben visibile da tutti per lo spiccato colore azzurro chiaro; quel piccolo pezzo di mare, da allora, è rimasto il più pescoso di tutta la zona.
Gli Acta Sanctorum riportano alcuni miracoli attribuiti a S. Cataldo. Il repertorio tematico è quello che lega il Santo al mare (AA. SS., Maii, t.II, coll. 570-572): S. Cataldo che salva alcuni marinai di Crotone in navigazione verso Taranto, sorpresi da una tempesta a largo, tra le foci del Bradano e del Lato; S. Cataldo che fa riottenere la vista ad una monaca di Gallipoli non appena la nave su cui viaggia la religiosa entra nel porto di Taranto; S. Cataldo che salva alcuni marinai di Taranto colti da tempesta al loro ritorno dalla Sicilia (DALENA 1997, 40).
Un pellegrinaggio a Taranto legato al culto di S. Cataldo, sia pure di modeste proporzioni, è attestata dall’arrivo in <<peregrino habitu>> di un pittore <<ex genere Francorum>> che affrescò la nuova chiesa del Santo e da un ospizio per pellegrini, avviato presso il monastero greco di S. Pietro in Magna Insula Tarenti nel 1118, per volontà e in seguito a donazione di Costanza, vedova di Boemondo I, documentato da una bolla di Clemente III del 1188 (IBIDEM; CARDINI 1995, 291).
In ambito iconografico, le più antiche raffigurazioni del Santo, sparse per l’Italia e l’Europa, lo mostrano con abiti arcivescovili, con la barba (raramente senza, come nell’affresco della Cattedrale di Anagni), col pastorale, col pallium, mentre legge un libro, in atteggiamento benedicente e col capo coperto dalla mitra (KAFTAL 1965, coll.253-254; RÈAU III 262).
Non mancano immagini, in versioni diverse, che vedono il santo recare nella mano destra l’immagine della Città di Taranto o comunque simboli marinari che ne connotano il patronato. Nella cripta della romanica cattedrale di Taranto (“la più antica di Puglia”), a lui intitolata, sulla parete destra della zona absidale campeggia un palinsesto di S. Cataldo (che affianca Maria Maddalena e S. Maria Egiziaca, del primo strato), datato tra XIII e XIV secolo, che costituisce forse l’immagine più suggestiva del Patrono Tarantino, espressione di una corrente pittorica di marca orientale. Altre pitture sono quelle realizzate tra Sei e Settecento da insigni artisti locali e della scuola napoletana. Segnaliamo solo le due tele datate del pronao della cattedrale di S. Cataldo: l’ingresso di S. Cataldo a Taranto (opera di Giovanni Caramia, 1675) e S. Cataldo resuscita un morto (opera di Michele Lenti da Gallipoli, 1773). Vi è poi la statuaria tarantina, la cui prima realizzazione fu il busto-reliquiario in argento del 1346, commissionato dall’arcivescovo di Taranto Ruggero Capitignano a un orafo locale (Calò Mariani 1993a, 729), poi fatto adattare a figura intera a Napoli nel 1465 dal sindaco Troilo Protontino, a ringraziamento del popolo tarantino scampato dal colera per intercessione di S. Cataldo; il sacro manufatto fu poi fuso al tempo di Mons. Jorio, nel 1892, per realizzarne uno nuovo.
Significative testimonianze delle vecchie statue ci pervengono dagli scritti che ci hanno lasciato alcuni viaggiatori tra Sette e Ottocento, come ad esempio quelle del Pacichelli, della Ross e del Bertaux.
L’abate Giovanni Battista Pacichelli (1641-1695), nella sua fortunata opera pubblicata nel 1703 (Il Regno Di Napoli In Prospettiva) così descrive l’antica statua del “Glorioso Protettore”: <<...d’argento, alta sette palmi, racchiude nella testa, che dicon finita per mano Angelica, il proprio cranio. Si venera la Lingua del medesimo incorrotto dopo mille anni…>>.
Alla viaggiatrice inglese, Janet Ross, dopo la visita al Cappellone di S. Cataldo, la statua <<si mostra in tutta la sua bruttezza, nonostante fosse in argento>> (Ross 1889,101).
Emile Bertaux, invece, dopo aver visitato la cattedrale tarantina, a proposito del venerato simulacro, così scrive nel suo testo intitolato Sur les chemins des pèlerins et des emigrants ( <<rassegna pugliese>>, gen. – febbr. 1898, pp. 345-55): <<domando di questa statua al tesoriere del Capitolo e mi sento dire con perfetto cortesia che la statua “antichissima” venne fusa tra anni orsono e che con l’argento di essa ne era stata fatta un’altra “molto più bella”… mi fa penetrare ( il sacerdote) nel ricchissimo Cappellone tutto intarsiato di marmi rari, in fondo al quale un armadio chiuso con porte d’argento massiccio contiene l’immagine di S.Cataldo. La statua moderna è di disegno corretto, d’esecuzione e di stile settecento>> a partire dal Seicento, è possibile trovare delle incisioni cataldiane che ripercorrono la vita del Santo, alcune delle quali finalmente acquerellate e arricchite di medaglioni, come quella della prima metà del seicento , inserita nel testo Missae solemmes, a firma di monzi. T. Caracciolo. Tra fine ottocento e i primi del novecento non mancano esemplari di cromolitografia ad uso di piccole immagini devozionali, che si offrivano nella Cattedrale a tutto il popolo nei giorni del triduo di maggio.
Santa Maria della Giustizia e le ricerche di Carmine De Gregorio
Gli ultimi studi di Carmine De Gregorio su “SANTA MARIA DELLA GIUSTIZIA dalle radici della nostra storia un grande patrimonio da valorizzare e da amare”
“Ci passiamo davanti velocemente poco prima di imboccare la strada statale n.106 ionica. La maggior parte dei tarantini la intravedeva fugacemente mentre con i vecchi bus della Stat prima e dell’Amat poi l’estate si recava sulla foce del Tara ai famosi stabilimenti balneari di Lido Venere e Pino Solitario. L’occhiata era davvero fugace mentre la vista era più attratta dall’alta torre che campeggia sull’altopiano alle spalle di punta Rondinella. Ancora oggi la stragrande maggioranza dei nostri concittadini non sa cosa sia quel vecchio complesso che si intravede dietro la vegetazione ed alcuni vecchi ulivi di fronte all’ingresso principale della raffineria dell’Agip. Quel complesso è SANTA MARIA DELLA GIUSTIZIA. In quel sito si sono consumati circa mille anni della nostra più che millenaria storia. Se oggi di questo millenario monumento cittadino possiamo conoscerne la storia lo dobbiamo, senza per questo far torto a quanti si sono cimentati in ricerche storiche, all’Arcidiacono Mons. Giuseppe Blandamura. E’ dunque alla sua pubblicazione che mi riferirò nel tratteggiare alcuni degli eventi storici che hanno riguardato lo splendido complesso. Se oggi la nostra comunità può sperare di riappropriarsi e di ammirare questo monumento lo si deve al tenace impegno con cui l’arch. Ressa ha voluto il progetto di ristrutturazione e restauro; progetto che poi ha seguito con grandissima cura e con un impegno professionale straordinario.
La storia:
Come si è detto, a proposito del monastero di S. Pietro all’Isola, quasi certamente verso la fine del VI sec. Un gran numero di religiosi d’Oriente della regola di San Basilio giunsero dalle nostre parti ed in particolare sulle isole Cheradi ove edificarono i loro monasteri. E’ noto che dalle Cheradi o anche attraverso altri originari percorsi, essi diffusero nelle nostre contrade la civiltà greca attraverso un certo numero di monasteri, di laure, di cripte e di chiese greche disseminate nella vasta campagna tarentina. I basiliani godettero di numerose concessioni, anche dopo la fine della dominazione bizantina, fra le quali una delle più note è senza dubbio quella accordata da Costanza, figlia di Filippo re di Francia, e da suo figlio Boemondo II. I terreni oggetto delle concessioni erano naturalmente utilizzati per insediarvi edifici religiosi ed ospizi per pellegrini religiosi e per la povera gente del posto.
Era tradizione ubicare questi insediamenti in prossimità di un corso d’acqua abbondante e perenne possibilmente al di sopra di un’altura al fine di sottrarre la comunità dagli effetti malarici delle zone paludose oltre che per meglio controllare l’arrivo delle orde barbariche dei saraceni. Per questa ragione i calogeri di San Pietro edificarono il loro ricovero nei pressi del fiume Tara e sull’altura più pronunciata, vale a dire sull’altopiano al di sopra di punta Rondinella. In questo punto la spiaggia ionica gradatamente si innalza formando un altopiano, un tempo aspro e rotto qua e là da vallate e burroni stretti e dirupati. L’altopiano un tempo circondava la regione del Tara che era coperta da fitte boscaglie. Da questa altura ancora oggi si domina tutta la distesa dello Jonio e a quel tempo i ricoverati nell’ospizio ben potevano sorvegliare le manovre dei temutissimi saraceni ogni qual volta tentavano lo sbarco su quella riva e correre in tempo alle difese agevolate dalle accidentalità del terreno.
Questa naturale sicurezza, derivante dalla configurazione del luogo, non dovette neanche sfuggire agli abitanti della regione in tempi remotissimi se è vero, come diversi storici affermano, che in questi luoghi sorgesse la primitiva città jonica fondata dai Partenii, prima che egli stessi conquistassero l’altra che si stendeva verso levante.
E prima ancora dei Partenii, il pianoro che da punta Rondinella salve verso l’altura soprastante, ha registrato presenza inequivocabile di una comunità che ivi si stanziò durante il Neolitico. A queste conclusioni giunge Mariantonia Gorgoglione al termine di alcune campagne di scavo effettuate agli inizi degli anni novanta, dopo l’accurato esame di numerosi reperti relativi sia a strutture abitative che funerarie. Scoperta di rilevanza straordinaria poiché se il contesto indagato risulta inquadrabile nell’arco cronologico del III millennio ci troveremmo di fronte ad una stratificazione abitativa forse addirittura antecedente agli insediamenti terramaricoli (all’epoca contestati da una parte del mondo scientifico) scoperti dal Quagliati nel 1899 durante i lavori di sbancamento di Scoglio del Tonno. E’ un vero peccato che le scoperte della d.ssa Gorgoglione non abbiano avuto il rilievo che meritano, così come dobbiamo registrare, con grande rammarico, che ancora una volta, reperti archeologici di siffatta rilevanza dopo la fase di studio e di musealizzazione, ritornino anonimamente interrati e non tenuti alla luce per la successiva valorizzazione e fruizione in situ. Dunque come ricorda il Blandamura “su quell’altopiano ove permangono tuttora le reminiscenze dei nostri miti e si ripetono vetuste leggende patrie; su quelle alture che rievocano anche episodi gloriosi di storia cittadina obliati, o quasi, ai nostri giorni; fu edificato l’ospizio basiliano che, prossimo tanto alla costa jonica, prese il nome di Santa Maria del Mare.” Un primo elemento di chiarimento il Blandamura propone, con dovizia di particolari a proposito del fatto che l’ospizio basiliano fosse di epoca successiva ad uno ospizio per ricovero di infermi che trovavasi nello stesso luogo. Il chiarimento del Bladamura viene riferimento soprattutto a quegli storici locali, fra i quali il Valente, che non avevano considerato tale preesistenza. Sostiene infatti il Blandamura che essendo la concessione di Costanza di Francia risalente al 1119 mentre l’ospizio di Santa Maria sorse a seguito della concessione normanna che prescriveva che la realizzazione dell’edificio servisse ad uso dei religiosi greci per l’assistenza dei pellegrini pro amore Dei peregrinantium. Solo successivamente l’Ospizio di Santa Maria del mare, edificato per dare ricovero ed assistenza ai pellegrini poveri vaganti da un santuario all’altro di Puglia, ebbe nell’epoca delle crociate, destinazione alquanto differente, quella cioè di un vero e proprio ospedale che curasse i combattenti quivi convogliati, o che si trovassero nelle impossibilità di prendere il mare, o di far ritorno alle proprie sedi. L’ospizio basiliano venne ad essere edificato a fianco della cappella di Santa Maria del mare che quindi esisteva anch’essa, come l’ospizio per gli infermi, in epoca antecedente alla concessione normanna del 119. Dell’originaria cappella non rimane più nulla dal momento che essa fu riedificata presumibilmente attorno al 1310.
Sulla parete di confine con l’androne, il restauro ha consentito il recupero di un meraviglioso affresco riproducente un originale Cristo in croce con l’ Addolorata e i Santi Giovanni e Benedetto. Un importantissimo “unicum” il cui sfondo paesaggistico collinare ricorda forse il luogo di provenienza del pellegrino autore del dipinto. E’ facile immaginare l’emozione provata dai tecnici restauratori man mano che le immagini riemergevano dalla coltre di fuliggine che le copriva. Anche queste immagini sfuggirono del tutto al Blandamura, al Valente, al De Giorgi ed agli altri studiosi che si erano occupati del complesso monastico.
“Ci passiamo davanti velocemente poco prima di imboccare la strada statale n.106 ionica. La maggior parte dei tarantini la intravedeva fugacemente mentre con i vecchi bus della Stat prima e dell’Amat poi l’estate si recava sulla foce del Tara ai famosi stabilimenti balneari di Lido Venere e Pino Solitario. L’occhiata era davvero fugace mentre la vista era più attratta dall’alta torre che campeggia sull’altopiano alle spalle di punta Rondinella. Ancora oggi la stragrande maggioranza dei nostri concittadini non sa cosa sia quel vecchio complesso che si intravede dietro la vegetazione ed alcuni vecchi ulivi di fronte all’ingresso principale della raffineria dell’Agip. Quel complesso è SANTA MARIA DELLA GIUSTIZIA. In quel sito si sono consumati circa mille anni della nostra più che millenaria storia. Se oggi di questo millenario monumento cittadino possiamo conoscerne la storia lo dobbiamo, senza per questo far torto a quanti si sono cimentati in ricerche storiche, all’Arcidiacono Mons. Giuseppe Blandamura. E’ dunque alla sua pubblicazione che mi riferirò nel tratteggiare alcuni degli eventi storici che hanno riguardato lo splendido complesso. Se oggi la nostra comunità può sperare di riappropriarsi e di ammirare questo monumento lo si deve al tenace impegno con cui l’arch. Ressa ha voluto il progetto di ristrutturazione e restauro; progetto che poi ha seguito con grandissima cura e con un impegno professionale straordinario.
La storia:
Come si è detto, a proposito del monastero di S. Pietro all’Isola, quasi certamente verso la fine del VI sec. Un gran numero di religiosi d’Oriente della regola di San Basilio giunsero dalle nostre parti ed in particolare sulle isole Cheradi ove edificarono i loro monasteri. E’ noto che dalle Cheradi o anche attraverso altri originari percorsi, essi diffusero nelle nostre contrade la civiltà greca attraverso un certo numero di monasteri, di laure, di cripte e di chiese greche disseminate nella vasta campagna tarentina. I basiliani godettero di numerose concessioni, anche dopo la fine della dominazione bizantina, fra le quali una delle più note è senza dubbio quella accordata da Costanza, figlia di Filippo re di Francia, e da suo figlio Boemondo II. I terreni oggetto delle concessioni erano naturalmente utilizzati per insediarvi edifici religiosi ed ospizi per pellegrini religiosi e per la povera gente del posto.
Era tradizione ubicare questi insediamenti in prossimità di un corso d’acqua abbondante e perenne possibilmente al di sopra di un’altura al fine di sottrarre la comunità dagli effetti malarici delle zone paludose oltre che per meglio controllare l’arrivo delle orde barbariche dei saraceni. Per questa ragione i calogeri di San Pietro edificarono il loro ricovero nei pressi del fiume Tara e sull’altura più pronunciata, vale a dire sull’altopiano al di sopra di punta Rondinella. In questo punto la spiaggia ionica gradatamente si innalza formando un altopiano, un tempo aspro e rotto qua e là da vallate e burroni stretti e dirupati. L’altopiano un tempo circondava la regione del Tara che era coperta da fitte boscaglie. Da questa altura ancora oggi si domina tutta la distesa dello Jonio e a quel tempo i ricoverati nell’ospizio ben potevano sorvegliare le manovre dei temutissimi saraceni ogni qual volta tentavano lo sbarco su quella riva e correre in tempo alle difese agevolate dalle accidentalità del terreno.
Questa naturale sicurezza, derivante dalla configurazione del luogo, non dovette neanche sfuggire agli abitanti della regione in tempi remotissimi se è vero, come diversi storici affermano, che in questi luoghi sorgesse la primitiva città jonica fondata dai Partenii, prima che egli stessi conquistassero l’altra che si stendeva verso levante.
E prima ancora dei Partenii, il pianoro che da punta Rondinella salve verso l’altura soprastante, ha registrato presenza inequivocabile di una comunità che ivi si stanziò durante il Neolitico. A queste conclusioni giunge Mariantonia Gorgoglione al termine di alcune campagne di scavo effettuate agli inizi degli anni novanta, dopo l’accurato esame di numerosi reperti relativi sia a strutture abitative che funerarie. Scoperta di rilevanza straordinaria poiché se il contesto indagato risulta inquadrabile nell’arco cronologico del III millennio ci troveremmo di fronte ad una stratificazione abitativa forse addirittura antecedente agli insediamenti terramaricoli (all’epoca contestati da una parte del mondo scientifico) scoperti dal Quagliati nel 1899 durante i lavori di sbancamento di Scoglio del Tonno. E’ un vero peccato che le scoperte della d.ssa Gorgoglione non abbiano avuto il rilievo che meritano, così come dobbiamo registrare, con grande rammarico, che ancora una volta, reperti archeologici di siffatta rilevanza dopo la fase di studio e di musealizzazione, ritornino anonimamente interrati e non tenuti alla luce per la successiva valorizzazione e fruizione in situ. Dunque come ricorda il Blandamura “su quell’altopiano ove permangono tuttora le reminiscenze dei nostri miti e si ripetono vetuste leggende patrie; su quelle alture che rievocano anche episodi gloriosi di storia cittadina obliati, o quasi, ai nostri giorni; fu edificato l’ospizio basiliano che, prossimo tanto alla costa jonica, prese il nome di Santa Maria del Mare.” Un primo elemento di chiarimento il Blandamura propone, con dovizia di particolari a proposito del fatto che l’ospizio basiliano fosse di epoca successiva ad uno ospizio per ricovero di infermi che trovavasi nello stesso luogo. Il chiarimento del Bladamura viene riferimento soprattutto a quegli storici locali, fra i quali il Valente, che non avevano considerato tale preesistenza. Sostiene infatti il Blandamura che essendo la concessione di Costanza di Francia risalente al 1119 mentre l’ospizio di Santa Maria sorse a seguito della concessione normanna che prescriveva che la realizzazione dell’edificio servisse ad uso dei religiosi greci per l’assistenza dei pellegrini pro amore Dei peregrinantium. Solo successivamente l’Ospizio di Santa Maria del mare, edificato per dare ricovero ed assistenza ai pellegrini poveri vaganti da un santuario all’altro di Puglia, ebbe nell’epoca delle crociate, destinazione alquanto differente, quella cioè di un vero e proprio ospedale che curasse i combattenti quivi convogliati, o che si trovassero nelle impossibilità di prendere il mare, o di far ritorno alle proprie sedi. L’ospizio basiliano venne ad essere edificato a fianco della cappella di Santa Maria del mare che quindi esisteva anch’essa, come l’ospizio per gli infermi, in epoca antecedente alla concessione normanna del 119. Dell’originaria cappella non rimane più nulla dal momento che essa fu riedificata presumibilmente attorno al 1310.
Sulla parete di confine con l’androne, il restauro ha consentito il recupero di un meraviglioso affresco riproducente un originale Cristo in croce con l’ Addolorata e i Santi Giovanni e Benedetto. Un importantissimo “unicum” il cui sfondo paesaggistico collinare ricorda forse il luogo di provenienza del pellegrino autore del dipinto. E’ facile immaginare l’emozione provata dai tecnici restauratori man mano che le immagini riemergevano dalla coltre di fuliggine che le copriva. Anche queste immagini sfuggirono del tutto al Blandamura, al Valente, al De Giorgi ed agli altri studiosi che si erano occupati del complesso monastico.